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5 domande a Dario Arkel

Victor Brauner (1903-1966) - Conglomeros Victor Brauner (1903-1966) - Conglomeros
Giovedì, 14 Gennaio 2016 18:53
(2 Voti)
Scritto da 

Il 2016 inizia con una speciale intervista a Dario Arkelsaggista e docente universitario. Lessi in rete alcuni brani tratti dai suoi libri e mi colpì la sua visione dell'Altro dentro e oltre i social network. Arkel risponde alle mie domande con partecipazione totale. Le sue sono risposte intense e piene di spunti per nuove riflessioni. 

"Appartengo a un mondo Mitteleuropeo e vivo il Mediterraneo" D.A.

Buona lettura

1. VISTA
Gli occhi sono il nostro campo base dal quale iniziamo a educare la nostra percezione e, in qualche modo, a catalogare tutto ciò che ci circonda. Per uno scrittore osservare è una necessità. Qual è l’immagine che più di tutte ha lasciato un segno dentro di te come uomo e narratore?

Parlare di quanto ha segnato la vita e riassumerlo in una immagine in particolare è molto difficile penso per chiunque. Tuttavia, quanto è in me è sostanzialmente legato a un’immagine di morte e ad una di amore.
La morte improvvisa di mia madre, avvenuta in casa. Avevo 8 anni e lei 38. La trovai nel bianco della vasca da bagno, rovesciata, con un filo di bava che le fuoriusciva dalla bocca. A parte lo scuro dei capelli, tutto era bianco e tante le bollicine.
Ho descritto queste immagini di contrasto a più riprese nei testi narrativi “Avvolto nel cielo stellato” e in “Racconti di Genova”.

La seconda immagine è il sorriso di una ragazza, poco più di una bambina, ora diventata donna, infinito, vicino e imprendibile. La felicità esplosa a me rivolta. Mentre qualcuno invecchia, dentro e fuori, questo sorriso continua a ringiovanire, e torna ad essere quello di una bimba felice. Dentro di me.

 

2. UDITO 
Ascoltare vuol dire porsi in attenzione dell’altro, ascoltare per poi condividere un sentimento sia esso di gioia o di dolore. Per te la condivisione è un concetto importante, tanto che nel tuo libro “Il pianeta condiviso” scrivi: “Tutti insieme è l’armonia. Tutti uguali e tutti diversi, insieme sullo stesso Pianeta che non è infinito ma ha ancora tanto da dare se rispettato e amato come la persona a noi più cara alla quale dobbiamo riconoscenza”. 
Secondo te l’armonia umana è solo utopia? Esiste una soluzione contro l’abbrutimento del pensiero e delle azioni di oggi?

L’armonia non è utopia per chi vuole e sceglie di viverla.
Contano le azioni del vivere, noi siamo solo le nostre azioni. Nasciamo, viviamo, moriamo. Non incontriamo la Vita (che è mero concetto filosofico) né la Morte (idem).
Le nostre azioni sono le nostre scelte, in sostanza. E cioè la ricerca dell’indipendenza e della libertà all’interno della responsabilità (frutto di conoscenza) e del suo lato pragmatico: la solidarietà.
Queste scelte aprono alla condizione di potersi esprimere e coinvolgere l’Altro, scambiando il dono di cura e attenzione nella reciprocità. Il dono dell’Altro è “munus” (dono in latino) che, se ricambiato, crea il cum-munus che è il principio della comunità. L’armonia è data da questa continua ricerca di scambio che ha un limite soltanto nella natura e non nella socialità intesa come “politica” o come “Storia”.
Il mio è un pensiero a-storico, ovvero di valorizzazione del tempo umano (prendendo spunto da come è vissuto dal bambino, in modo istintivo e creativo) perché non legato a Chronos ma a Kairòs, ovvero legato al tempo dell’opportunità.

Vivere è possibilità di conoscenza e dunque è ascolto e l’essere ascoltato in un contesto naturale e disinteressato, lontano da ciò che è “mondano”.
Vivere nella natura, dare espressione e valorizzare quanto sta dentro e non fuori. Ed è la natura che noi interiorizziamo innanzitutto.
La Storia mi appare una cronologia di lutti, botta e risposta, non è lei ad aver portato all’emancipazione femminile, alle (poche) conquiste dei lavoratori, alle Convenzioni sui Diritti dei bambini.

Queste sono le prerogative di un faticoso cammino che l’uomo, in purezza, cerca di “parificare” nel mondo, facendo corrispondere, attraverso i diritti, la libertà e la considerazione dell’Essere, il diritto NATURALE al diritto giuridico e legale.
Naturale è giocoforza sociale, giuridico e legale è artefazione di un dato momento storico.

Attraverso la sofferenza l’uomo scopre il nero, la pazienza e la speranza e va nell’oltrenero a scoprire la luce dietro il sipario della mestizia.

Questo cammino è la ricerca di un’Etica dell’Essenziale, che vale a rafforzare la persona nella sua presunta solitudine collegandola automaticamente alla speranza di essere considerato, ascoltato e divenire parte ricevente di parole che uniscono l’uno all’altro. Parole PER e non CONTRO. Parole utili per vivere, pacificandosi nella crescita costante della conoscenza.

Vorrei poi spendere una parola sulla musica, citando la vicenda di Giörgy Ligeti, il compositore contemporaneo ungherese. Egli venne a Vienna grazie ad amici che lo volevano libero dal giogo comunista.
Nella sua piccola stanza di periferia non aveva neppure il pianoforte, scendeva in un grigio bar e osservava i camion fermarsi al distributore dirimpetto. Compose là e allora “LONTANO”, uno dei capolavori assoluti della musica astratta.

Lontano è quanto è vicino dentro di noi, e quanto è vicino si innalza e supera la barriera diventando pura creazione.

 

3. OLFATTO 
Abbiamo una memoria odorosa spesso legata all’infanzia: quali sono gli odori che porti sempre con te, nei tuoi ricordi? Esistono degli odori che hanno influenzato la tua vita? 

Non dimentico i boschi della Val d’Aosta dove ho in parte vissuto da bambino. Le vacche e l’olezzo, il calore profumato della legna nei camini, che nell’immaginazione scioglievano il bianco della distesa innevata. L’aroma di certi cibi in preparazione, il ricordo della madre, appena un accenno. Muto. L’odore del pane al mattino, e del caffè che ancora non bevevo (da qui il personaggio Marcel Farcoz, protagonista de “La pazienza della notte”, la mia ultima prova narrativa).

Poi, l’Isola di Cherso, descritta in “Fedele alla terra” e parzialmente in “Avvolto nel cielo stellato”. L’Isola col suo odore. Si scopre da lontano, ancora in Istria, e, mano a mano, diventa sempre più intenso al sole dell’estate, sullo specchio del mare.
La salvia e l’aglio selvatico. Il mirto e il ginepro. Il mare. La notte, poi, il ventaglio delle stelle è un sipario. La meraviglia e lo stupore, il passaggio di animali selvatici, la profondità pungente del profumo delle bacche rosse, la prevalenza della salvia, scavano dentro di me e riscopro la voglia di rinnovarmi, di ricercare dentro una corrispondenza a quanto vivo tra gli aromi.
E questi aromi divengono sapori. E anche il cielo ha un suo sapore.

 

4. GUSTO 
Il gusto è il primo contatto con il mondo. Ancor prima di viverla, la vita la assaporiamo dal seno materno. Nasciamo soli per poi far parte del tutto. Oggi quel tutto primigenio sembra essere diventata la Rete con la spasmodica ricerca dell’altro. Hai scritto che attraverso i social network offriamo, come in uno specchio, una parte di noi.
Tu cosa hai offerto oltre questo specchio? E cosa ci hai trovato?

Vivere è già nella mamma. Là niente ostacola il bambino che si nutre, si capovolge, non sa di dover respirare, e tutto è lieve e serico.
Una sensazione libera e fluida. Poi, quando si esce (o si entra) nell’atmosfera aperta si scopre il freddo e il respiro.
Lo chock è anche scoprire, poco dopo, nella mamma una parte buona e una cattiva: un seno è accusato di essere cattivo, l’altro è invece buonissimo. La mamma non è ancora una. Sono due.
La difficoltà del piccolo va accolta e compresa perché riesca a coniugare le due parti della mamma in una sola.
Vivere è questo e resta questo: coniugare sofferenza a speranza e quindi creare l’involucro favorevole in cui svernare e provvedere alle nuove opportunità di conoscenza. La conoscenza istruisce amorevolmente su come superare le difficoltà.

Prima di concedere qualche parola sul senso del gusto, riflessioni sulla necessità del cibo, vorrei rispondere alla domanda circa i social network visti come lo specchio-parte-di-noi.
È necessità comunicare. Abbiamo la possibilità di farlo a distanza, oggigiorno. Noi perciò lo specchio lo portiamo dentro e lo esternalizziamo.

La condivisione di cui spesso ho parlato contiene in sé un termine decisivo: CONVIVIALITÀ. L’idea è che gli esseri umani si riuniscano, anzi, si sappiano riunire. Conversare, trattare argomenti anche profondi può, e deve, avvolgersi in un guanto di leggerezza.
Questa leggerezza può essere l’occasione della tavola e della sensazione di compartecipare al rito di un nutrimento “di sensazione”.

Questa stessa convivialità può trovarsi nell’incontro con l’Altro attraverso l’uso dei social network, in quanto facilitatori di conoscenza.
Risulta però ovvio che da un lato questo tipo di conoscenza richiede un approfondimento quando si riscontrano punti in comune con l’interlocutore e, dall’altro, un certo distacco “protettivo” sino a che l’approfondimento non sia stato esaudito.
Di per sé, per un percorso di conoscenza, i social network non vanno demonizzati, ma presi con una certa distanza questo sì.

Rivelare tante cose di noi, cose profonde, attraverso una bacheca è come presentare un piatto guarnito di antipasti, nel quale ciascuno può scegliere il suo boccone preferito.

La persona è però la complessità del suo essere, non ci si deve illudere pertanto, con l’assaggio di un antipasto, di conoscere davvero l’Altro.
Diamo nello specchio quanto siamo, ma parzialmente. A ben vedere, talvolta si scoprono ansie da “esibizione” di sé e talvolta si ha l’impressione di svelarsi troppo con chi non conosciamo.
Eviterei questo che è un abuso su se stessi e attenderei il momento davvero “conviviale” se esso avrà mai luogo.

Ecco perché è specchio di noi: rifrangiamo in esso la nostra ansia di socializzazione temendone gli equivoci, la respinta della nostra seppur velata richiesta di “accompagnamento” nel cammino.

Allora la rifrazione ci riporta alla nostra interiorità, cresciamo anche con l’equivoco, con la delusione, ed è anzi proprio questa che può far ripartire in modo diverso l’esperienza comunicativa. Lo specchio è utile a noi e a chi sa accogliere.

Personalmente andare oltre specchio mi è gradito, ho trovato la possibilità di accelerare la conoscenza anche di me stesso, mettendomi alla prova, talvolta ironizzando talaltra affrontando concetti per me seri.

Andare oltre lo specchio, per come lo intendo io, è scoprire quel qualcosa di sé che può risultare valido per l’Altro e procedere allo scambio fecondo. In attesa del momento della presenza. I S.N. non rappresentano un risultato di per sé, ma un tramite, un inizio verso la sperimentazione di sé nel dialogo con l’Altro.

La convivialità è il presupposto concreto per raggiungere un modo di rapportarsi serenamente, fino a congiungere metaforicamente il proprio respiro con quello altrui. Questo è il modello della co-spirazione, un modo antico di scambiare affanni e gioie del vivere. Si tratta quindi di condividere l’altro ascoltandone la corporalità, e il senso del suo cammino.

Mi prendo ora la licenza di parlare più da vicino dei miei gusti e delle mie storie di cucina (se ne ho ancora lo spazio).
Ho amato molto l’Ungheria, quindi, l’affumicato e la paprika, la panna acida. La sapidità che come la cogli non ti abbandona più. L’odore del freddo, del vento, il gefillte fish che si mangiava nelle feste ebraiche.
La carpa, un pesce del Danubio (e non solo) che si allevava nella vasca da bagno perché restasse puro, veniva riempito da un pesce più piccolo.
Lo spavento di questi animali, gli occhi rossi e la bocca spalancata, le pinne che agitavano e spruzzavano l’acqua là dove sedevo sul wc da bambino. Diciamo tutto: non tutto è positivo. E ci si disperde ricordando.

Il gusto si affina e amo la pausa per il cibo. Lo vado a cercare. Ho vissuto parte della vita alla scoperta dei sapori e dell’atmosfera che sta loro intorno.

Mangio più un’atmosfera che un cibo. Perché la vivo e la gusto di più. Parlando di cucina, amo soprattutto quella italiana, così varia, senza limiti da Nord a Sud, da Est a Ovest. E quella raffinatissima ungherese, quella di Gundel, per intenderci. Mi piacciono le specialità dei posti dove vado. Non cerco quello che mangio da me, che mi cucino. No, il resto. Apro la mente a sensazioni nuove.

L’uomo è sicuramente COLUI CHE MANGIA, eheh. Ma bisogna saper gustare. Il grande filosofo, giurista e gastronomo Anthelme Brillat-Savarin, ragionava nel “Trattato di gastronomia trascendentale” del 1800, sui sensi. Stabilì che i sensi si sono ribaltati nel corso del tempo. Il gusto, tra i cinque è il vertice perché riunisce sotto di sé gli altri sensi, in scala.
La convivialità della tavola fa sì che si eserciti l’udito, la vista del piatto e dei commensali, il tatto al palato (consistenza del cibo), l’olfatto dei profumi. Ecco, il gusto giunge al termine di questo percorso di conoscenza.
E vi giunge perché da che l’uomo è nato, nutrirsi è utile e perciò DEVE risultare piacevole. Perché? Perché è il carburante, ciò che sostiene l’azione del vivere.

Ai 5 sensi, Brillat-Savarin acutamente, ne aggiungeva un altro detto “genesico” (da guné-gunaikòs = donna): per svolgere l’azione principale dell’uomo occorre avere l’energia. E questa azione principale, da che il tempo è tempo, è la riproduzione della specie, il più piacevole degli atti.


5. TATTO 
La creatività è un concetto che non ha corpo. La scrittura senza il libro potrebbe apparire effimera e sfuggente. Le parole sono state definite ora pietre ora corpi tattili. Per te cosa sono le parole?

Le parole sono la comunicazione, il principio del dialogo. Bisogna rispettare la parola, e rispettare il “Principio di non contraddizione” di Aristotele, in un certo senso.
Se parlo di animali, parlo di vacche, ecco che chi dialoga con me non può sostenere che vacca non è animale ma un sottomarino nucleare.

L’uomo ha nella parola un codice che lo lega agli altri in modo fecondo. La comunicazione è data dall’espressività. Questa è fatta di pause, silenzi, musiche interiori, pensieri e meditazioni.

La miscela parola-dialogo-silenzio-riflessione porta alla complessità della comprensione. Da qui il fatto che “per alcuni” le parole risultino essere pietre, coltelli affilati, bombe atomiche.
Oggi si accettano sempre più parole in libertà, sprovviste di un bersaglio educante da cogliere.

È l’equivoco della comunicazione, lo straripare delle parole inutili, senza scorcio di potenzialità per crescere. Prendere un testo di Einstein o uno di Freud, di Bolano o Kafka è molto diverso dalle parole di tutti i giorni, e pure lo scrivere al giorno d’oggi è votato più al commercio che alla potenzialità pedagogica di quanto si esprime.

Appartengo a un mondo Mitteleuropeo e vivo il Mediterraneo. Un mondo di confusione dialettica e un mondo di tentativi di esattezza della Magna Grecia. In mezzo ci starebbe un equilibrio, potrebbe starci, se non fosse che quanto si vive oggi è mercificato ovunque e comunque, e rispetta solo la legge del mercato unico del pioniere spavaldo.

Le parole sembrano sparire e non interessare più in quanto tali. Troppe parole, scriviamo babilonese. Solo per interesse.

Il tatto è il senso decisivo per prendere e accogliere. Il tatto è soprattutto nelle zone erogene del nostro corpo, non solo nei polpastrelli come ci dicevano a scuola.

Il tatto è una scommessa, un buttarsi avanti stringendo mani, abbracciando con chi abbracciamo il mondo intero. È il simbolo dell’unità corporale e affina l’intensità del sentire complessivo. Il tatto anticipa noi, dove andiamo e saremo e vorremo stare.

Il tatto è il respiro del respirare insieme, favorire il bacio che unisce, l’amore totale, la vita luminosa.

 

E per finire una domanda fuori dai sensi: mi indichi 5 opere d’arte che, secondo te, tutti dovrebbero conoscere e perché?

“Se il mondo fosse perfetto, l’arte non esisterebbe”, diceva Albert Camus.
L’arte è il fare dell’uomo è “poièsis”, creatività feconda. Non è arte il fuoco di Prometeo, il senso del sacro va PARADOSSALMENTE rispettato.
L’arte non avvicina agli dèi. L’arte è fatica. Deriva dal prurito interiore di sostenersi, di darsi un occhio per come si è.
La vera arte è il confronto del bianco con il nero. Niente altro. I colori sono già in natura. Il bianco e il nero rappresentano la lotta tra ciò che è e ciò che non è (e quindi è altrettanto).

La semplicità non è semplificazione, la semplicità è ricerca, la semplificazione l’esatto opposto, noncuranza. Semplificazione è l’omicidio di chi ci contrasta, la semplicità implica la comprensione e lo scavo sulle cause del malessere. Semplificare è fotografare a colori, essere semplici rifarsi a Moby Dick e alla Bibbia.

1. La Bibbia e il Talmud. Seppur diversi esprimono in modo complementare la dialettica pura dell’arte. I profeti minori (Giona su tutti), la vicenda di Giobbe con il riferimento al silenzio come il buio necessario perché si rientri nella luce (“Dio aveva creato il giorno e la notte. E fu luce!”), il Qohelet sul tempo “opportuno”, rappresentano per me la saggezza poetica di un popolo ultra millenario, che mandava a memoria quanto non poteva portare con sé. L’opera d’arte numero uno, per me, è la tramandazione di un pensiero che sa rinnovarsi (il Talmud).

2. Michelangelo e Signorelli. La Cappella Sistina e La Cappella di San Brizio a Orvieto sono per me i capolavori maggiori dell’arte pittorica. Evocazioni frontali, con stimoli di preveggenza, di un traguardo aldilà del colore, un colore che esprime il bianco e il nero di una concezione spirituale.

3. Pierre Soulages, ovviamente. Il pittore di Rodez che ha traghettato (insieme a Rothko per certi aspetti) verso il grande sogno dell’oltrenero.

4. J.S. Bach “L’arte della fuga” e “L’offerta musicale”. Il mistero di Bach, le due opere del mistero, ecco queste fanno dire a Amedeo Broni, protagonista del mio romanzo “Compendio”, che questa musica, senza ritmo ma con più ritmo di ogni altra, sfuma l’uomo al cielo. Là si rotea, come la pupilla dell’occhio.

5. Les Essays di Michel Eyquem De Montaigne. Uno scritto in cui l’uomo nuovo nasce, con i suoi problemi e le sue fisime. La prima “offerta al mondo” di un’autobiografia ravvicinata. Il prototipo di un pensiero equilibrato, distaccato, senz’allori né allusioni, concreto e vivo, senza stravolgimenti. In questa mancanza apparente di coinvolgimento, il fascino prende il lettore che arriva a intravvederne la passionalità sopita, la fibra che si afferma flebile ma che cova, come brace ardente sotto la cenere della recita di una vita.

DarioArkel

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Giovedì, 14 Gennaio 2016 23:06
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