Per me la realtà è un biscotto raffermo che a poco a poco si sbriciola e l’essere umano diventa una nota a margine, un paragrafo appena abbozzato di capitoli mai finiti.
Utilizziamo gli occhi per percepire e quando con essi non riusciamo a vedere o vederci nell’altro ci affidiamo alla parola.
Allora ascoltare diventa l’unico punto di contatto tra chi tenta di esprimersi e chi cerca di comprendere.
Ma siamo sicuri che la parola semplifichi il contatto e la comprensione dell’altro?
Con le parole abbiamo inventato un linguaggio – o quello che crediamo sia il linguaggio – e con esso tentiamo di comunicare.
Comunicare è il primo comandamento – non scritto – dell’uomo-macchina dell’ultimo secolo. La comunicazione oggi è diventata una massa informe, un vuoto cosmico entro cui sta sprofondando l’intera umanità.
Pochi sanno che il potere dato alla parola sfugge a qualsiasi controllo.
L’io che narra la sua storia è vittima dell’io soggettivo che vive la sua storia.
È nato così l’universo del caos.
Allora, per sopravvivere al caos, abbiamo partorito il Noi salvifico e illuminante, l’autorità che detta legge su cosa e come percepire.
Errore d’interpretazione, penso. E gli errori generano rancori e il rancore crea l’incomunicabilità.
La necessità di contenere il fatidico errore crea piccoli regni su piccoli pianeti, dove difendiamo la nostra romantica visione sulla libertà di percepire sprofondando nell’insana affermazione che “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Ma non è meglio cercare il visibile per sfuggire agli equivoci? Chiedo.
Forse la mia essenza non è altro che la somma della mia incomunicabilità e della mia incomprensione.
Forse sono un piccolo atomo in un universo già morto, penso. E miliardi di parole continuano, senza pudore, a imbrattare il bianco lenzuolo che sarà la reliquia dell’umanità.
“Comunicare è da insetti, esprimerci ci riguarda”, scriveva il filosofo catanese. Indifferenti alla profonda bellezza di tale affermazione non cerchiamo di esprimere chi siamo ma tentiamo di comunicarlo attraverso immagini e percezioni condivise: Noi siamo è una distopica sentenza di superiorità.
Il pianeta che abitiamo fluttua in un ventre buio e sconfinato.
Non dovremmo percepire la catastrofe imminente?
Non dovremmo fare del dubbio la nostra fede?
La catastrofe è la menzogna che si nutre delle nostre certezze, è la percezione daltonica, è il Noi sacro che domina il nulla.
Se io non sono capace di percepire allora non posso essere percepita. Io non esisto per chi mi sta di fronte o, se esisto, sono il riflesso della sua alterata visione.
Che ne sai tu di me? vorrei chiedere alla piccola ancella che protegge il suo regno irridendo il mio.
Faccio ammenda di ciò che ho distorto di me, faccio ammenda di ciò che ho distorto di te, viva ma distante.
In fondo sono solo una goffa scrivi-scrivi che in una calda serata estiva cerca risposte sulla dinoccolata teoria della percezione.
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Commenti
Carissimo Nick,
intanto grazie mille per aver letto, commentato e adottato questo post sul gruppo #adotta1blogger.
Prima di pubblicarlo mi sono fatta mille domande, mi sono chiesta se era il caso di lanciare in "rete" un argomento così pieno di sfumature e interpretazioni.
Poi, per fortuna, ho superato ogni paura. E oggi sono felice di questa scelta perché ne sta venendo fuori un bel confronto e un interessante scambio di idee soprattutto su Medium.
Un abbraccio. mimma
Complimenti.
Grazie a te Renato per aver letto e commentato questo post. Un abbraccio Mimma