1. VISTA
Gli occhi sono il nostro campo base dove iniziamo a educare la percezione. Anche se la narrazione è mutila di questo senso, uno scrittore può descrivere minuziosamente i suoi mondi reali o irreali. Per te la scrittura deve essere asciutta dove il linguaggio non permette divagazioni o evocativa dove regna la bulimica presenza delle descrizioni?
Lo scrittore vede quello che racconta. Persino se è cieco. L'abbiamo imparato a partire dalla nascita della letteratura.
La forza di qualunque narrativa è dentro a questa visione e alla capacità di dare agli altri lo stesso potere visionario.
Personalmente sono un uomo distratto, mi sfuggono i particolari di ogni cosa, nella vita di tutti giorni e pure nei libri, nei tanti che leggo.
Poi inciampo per caso in un particolare e me ne meraviglio. Allo stesso modo scrivo.
Sono asciutto perché non vedo, non afferro, mi sfugge tutto, dimentico. Poi qualcosa mi illumina, proprio come nella tradizione Zen.
Capisco all'improvviso dove mi trovo e comincio a mettere insieme i tasselli delle cose, descrivo a ritroso, partendo da dove sono venuto.
In generale credo comunque che sia molto più evocativa l'idea di qualcosa che la sua descrizione. Perché la bellezza della visione sta proprio in quello: nella libertà di immaginare.
Poi magari penso così semplicemente perché invidio scrittori con abilità descrittive persino maniacali.
Ho riletto da poco tutta l'opera di Pier Vittorio Tondelli: la sua capacità di soffermarsi sugli abiti delle persone, su particolari dell'aspetto fisico, su certe minuzie, è sconvolgente. Ma se provassi a farlo io, che neppure so come mi vesto, sarei ridicolo.
Credo che la preferenza per un tipo di scrittura discenda anche da quello che siamo.
Più cerchiamo di essere noi stessi, più troviamo una voce narrativa capace di creare visioni: descrivendo o omettendo credo sia uguale, il lettore avverte soprattutto l'onestà della narrazione. E comunque lo scrittore ha il dovere – uso proprio questa vecchia parola – di quell'onestà.
2. UDITO
Ascoltare vuol dire porsi in attenzione dell’altro, è un sentire che sfocia in sentimento.
Gli scrittori spesso inseguono i dèmoni che affollano la loro immaginazione, “duellano con la pagina bianca” per ascoltarli e dargli vita.
E tu, come stani i tuoi dèmoni prima di affrontare la pagina bianca?
Arrivo alla pagina per costrizione, direi. Non è mai bianca perché quando giungo al momento della scrittura è perché ho bisogno di fare uscire quello che nel corso del mio lavoro si è accumulato.
Passo molto tempo, ore, giornate, mesi, anni a volte, attorno a qualcosa che poi diventerà una storia.
È come se riempissi un imbuto. O meglio ancora un distillatore.
A un certo punto è troppo pieno e devo cominciare a distillarne qualcosa.
Il demone è quello che mi conduce sulla via del riempimento, che mi costringe ad avere a che fare con quello che racconterò. Mi obbliga a vagare in posti ignoti, a studiare cose che neppure immaginavo esistessero, a occuparmi di mondi a volte così lontani dal mio e altre volte così nascosti dentro di me.
La pagina è quasi una liberazione. È mandare a casa finalmente i personaggi che sono stati ospiti della tua vita fin troppo a lungo.
Tu vuoi rimanere finalmente solo e l'unico modo per farlo è raccontarli. Così li congedi. Mi rendo conto che è qualcosa che rasenta la follia ma io quando preparo un romanzo vivo insieme ai miei personaggi.
Loro vengono a casa mia, li incontro giorno e notte. Mi raccontano le loro storie e mi chiedono di dargli voce. Solo quando sono stato molto ad ascoltare sono in grado di raccontare.
3. OLFATTO
Abbiamo una memoria odorosa spesso legata all’infanzia: quali sono gli odori della tua terra che porti sempre con te, nei tuoi ricordi? E come hanno influenzato la tua creatività e i tuoi scritti?
Ho avuto molte infanzie e molte terre. Nonne e nonni di luoghi diversi. Radici sparse in tutta l'Italia. Quella della terra e delle radici è una questione che neppure so affrontare. Mi angoscia a tal punto che dopo una settimana che vivo nello stesso posto penso ci sia qualcosa di sbagliato dentro di me.
C'è stato, da ragazzo, un momento nel quale ho scelto un luogo di elezione, ma quel luogo, giustamente, non aveva scelto me. Insomma, ho un rapporto da sradicato col mondo.
Però c'è un odore, una memoria olfattiva, che mi accompagna ovunque: è quello dei fiumi.
Le acque dolci di tutto il mondo hanno lo stesso odore, al confine tra il piacere e il fangoso. Qualcosa che non saprei raccontare ma che ovunque riconosco.
D'altra parte sono stato un bambino affascinato dallo scorrere dell'acqua. Mi spaventava il mare. Amavo i fiumi, i laghi, i torrenti. Avevo bisogno di sponde e di confini.
E dentro a quelle sponde mi sono appassionato di pesca, di pesci e di vita sommersa, di cose che ancora oggi mi accompagnano.
Del mare mi affascinano le isole non lontane dalla terraferma, quelle che creano un orizzonte, che limitano l'infinito. Ma del mare non amo l'odore.
Ho bisogno di terra nelle narici, di qualcosa che stia al mondo. Poi sì, ci sono profumi di buono, di cose che si mangiano, dei funghi appena raccolti, delle piante aromatiche sfregate tra le dita...
Le rose antiche, l'erba appena tagliata, la ferrovia, l'odore delle locomotive a carbone, l'asfalto bagnato dopo la pioggia...
Sono tutte cose che mi sono entrate nel naso vivendo. Non vengono dall'infanzia.
Vengono da quel lungo viaggio che è la vita.
4. GUSTO
Il gusto è il primo contatto con il mondo. Ancor prima di viverla, la vita la assaporiamo. Il gusto è la percezione di un sapore (amaro, dolce, salato) ma anche di uno stile. La letteratura è un mondo senza confini, dove il tempo è elastico e infinito. In questo infinito quanto pesa la ricerca di uno stile narrativo?
Cucino, tutti i giorni, per me e per chi mi sta intorno. Saperlo fare credo sia una grande forma di libertà, prima ancora che una ricchezza.
Ho cominciato a cucinare a meno di dieci anni. Facevo dolci e panini prendendo le ricette dal Manuale di Nonna Papera. Non venivano mai come dovevano. Così ho smesso di seguire le indicazioni.
Ho cominciato a mescolare le ricette di qualcuno con quelle di altri. L'ho fatto in cucina. E l'ho fatto nella scrittura. Mescolavo i libri che amavo, gli stili che incontravo, cercavo un meticciato della parola, qualcosa che facesse di me un narratore con una voce propria.
Così ho scoperto che l'alchimia sta nel farsi guidare da quello che ci trasporta.
Che il segreto sta nel trovare la propria voce dentro di noi. Non vive lontano. Non sta altrove. Come la ricetta del pane. Non è nel manuale. È nella manualità.
Si impara a scrivere a scuola. Ci danno un grande libro degli ingredienti: il vocabolario. È come incontrare la prima volta la farina, l'acqua e il lievito.
Credo di usare la mia voce, quando racconto e di cucinare le cose che piacciono a me, quando cucino. Poi le offro agli altri e spero che mangino con me, che mi leggano.
Ma non scrivo perché mi si legga, scrivo perché sia buono. Poi, ovviamente ho dei gusti, rifuggo il dolce perché nasconde la vita, la copre. Lo stesso vale per il salato.
Penso ci sia della poesia in una punta d'amaro e il piacere della scoperta nel sapore acido, il più dimenticato di tutti.
Gli immigrati dall'Est Europa si stupiscono che noi non usiamo la panna acida. Ricordo certi sapori al limite del mangiabile la cui linea di confine era il vero piacere. Stare sul filo, penso sia questo il segreto.
5. TATTO
La creatività è un concetto che non ha corpo ma in letteratura l’atto dello scrivere prende possesso delle parole, le domina trasformandole ora in pietre ora in “corpi tattili, sirene visibile, sensualità incorporate” (F. Pessoa).
Scrivere è inoltrarsi in un mondo muto e cieco dove lo scrittore dà vita ai golem delle sue ossessioni. La tua scrittura ha un corpo? E questo corpo quanto lotta con le tue ossessioni?
La mia scrittura è liquida. Il volume, il corpo dei liquidi sta nell'essere contenuti. Per questo cerco limiti e confini e, come ho detto, preferisco i fiumi ai mari.
Gli orizzonti definiti mi danno respiro. Mi aiutano anche a dare un corpo alle parole. Le storie sono il corpo. Chi mi legge da tempo dice che io sono un grande tessitore di storie. Io ringrazio, ma dentro di me penso, invece, che della trama non mi importa nulla: m'interessano le parole che la raccontano, l'acqua.
Ma, appunto, la storia è l'alveo, è il letto. Ed è il primo passo del narrare.
Mi diceva lo scrittore americano Robert Ward in una sera di confessioni davanti al bicchiere: io volevo fare grande letteratura, poi ho capito che dovevo raccontare una buona storia.
Se racconti una buona storia hai fatto un piacere al mondo. Se poi è anche grande letteratura, meglio ancora. Non riesco ad applicare il pragmatismo degli americani.
Però uso le storie come abiti per le parole. Ma le parole, per contro, servono a confezionare questi abiti.
E per finire una domanda fuori dai sensi: quali sono le cinque parole che vorresti usare nell’incipit perfetto che non hai ancora scritto?
Dio ci liberi dalla perfezione. Sono cinque parole, giusto?
Per contatti e informazioni su Michele Marziani:
- Sito web - Medium - Facebook
Foto di: Ornella Minny Augeri
Commenti
Ciao Michele, ora sono io a dover "arrossire" alle tue parole. Se faccio le domande giuste è perché studio e cerco di conoscere chi devo intervistare, cerco, per quanto possibile, di guardare oltre. Grazie. m
Carissima Gloria, queste interviste stanno diventando il più bel viaggio della mia vita. Sono contenta che si colga lo spirito e tutto il lavoro che c'è dietro ogni singola intervista. Per me l'apprezzamento più importante è il tuo oggi, è quello di chi ha già partecipato, è di chi ha condiviso ogni intervista. No, proprio su questo progetto, non ho intenzione di demordere. Grazie delle belle parole.
Che pensieri meravigliosi, Mimma, ha Michele Marziani e trovo molto belle queste tue interviste. Forse dovrai farne tante prima che vengano apprezzate e sia riconosciuto il loro valore ma... non demordere! Un abbraccio :)