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"Ogni cosa ha la sua ora"

Alberto Giacometti "Walking man" Alberto Giacometti "Walking man"
Lunedì, 18 Aprile 2016 14:32
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Quando finisco di leggere un libro, un bel romanzo corposo e intenso come "Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta, mi ritrovo orfana e spaesata.
Perché è questo che fa un buon libro, ti trascina lontano per poi riportarti dove tutto è iniziato.

E mi ritrovo all’alba a riflettere sul romanzo appena terminato e mi abbandono a questo senso di vuoto che mi prende mentre cerco le parole giuste per descriverlo.

 Leggere è cambiare latitudine ogni volta, è sentirsi ignaro e impotente spettatore oppure un viandante che entra nei racconti e ne resta impigliato per un po’.

Leggere è cambiare stato alla materia dei sogni, ora liquidi ora solidi, trasportati su zattere improvvisate su fiumi di cristallo oppure trovarsi di fronte a montagne di granito impossibili da scalare.

Leggendo “Il giorno del giudizio” di Satta ho attraversato un piccolo torrente che è diventato via via sempre più grosso, sempre più ingovernabile fino a rivelare l’inquietudine dell’autore, di una città e dei suoi fantasmi.

Satta descrive Nuoro e i nuoresi, i poveri e i ricchi, esistenze che sembrano distanti ma che s’intrecciano fino a diventare unici e indissolubili personaggi dello stesso quadro.

Lui, l’autore, è sempre dietro l’angolo, la sua voce è forte, si avverte la sofferenza e l’affanno per aver ricucito e ammaestrato i ricordi per non lasciarli andare, per non seppellirli lì dove tutto diventa oblio.

Questo libro è un capolavoro - non sono la prima a scriverlo - dalla scrittura arcaica che diventa l’altra protagonista del romanzo. Non mi era mai successo di amare così tanto la nostra lingua e Salvatore Satta, come un saggio maestro, mi ha condotta in un posto remoto e abbagliata con la forza emotiva di un italiano oggi in disuso.

Quindi, sì ho amato questo romanzo, gli ho teso la mano e sono andata incontro alle vite dei protagonisti, ho sfiorato l’esistenza grigia e senza speranza di Donna Vincenza, ho provato compassione per Pietro Catte, ho sostato al caffè Tettamanzi con i signori e gli ubriaconi e ho visto gli occhi vuoti di Don Sebastiano.

Tutto, in questo libro, mi ha ricordato un’altra città, un mondo lontano dove sono narrate altre vite legate indissolubilmente le une alle altre, parlo di Macondo la città magica immaginata da Gabriel García Márquez in “Cent’anni di solitudine”.

Può sembrare azzardato accostare due scritture e due storie così diverse, ma è l’irrimediabile solitudine dei personaggi che unisce i due romanzi.

Una città, una famiglia attorno alla quale ruota e geme un intero popolo, vite che cercano di riempirsi, di trovare un senso e un motivo per la loro inquietudine. La scrittura umida e aerea di Márquez ti resta sulla pelle, i Buendia rimangono impressi nella memoria e allo stesso modo, ma con sensazioni del tutto diverse, accade con “Il giorno del giudizio” e la Nuoro di Salvatore Satta.

E allora comprendi che se ognuno è al mondo perché c’è posto, la nostra anima e i nostri ricordi non fanno altro che vagare di stanza in stanza in un gioco con l’infinito presente. Perché prima di essere divorati dalle formiche vivremo, più o meno intensamente, questo intermezzo che è la vita. Il prima e il dopo non ci riguardano tutto si svolgerà in questa meravigliosa pausa e sta a noi comprendere quale sia il nostro posto e a quale solitudine appartenere.

“Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risuciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio”. Salvatore Satta

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