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La filosofia dello zerbino

© Jean Rustin © Jean Rustin
Venerdì, 22 Aprile 2016 14:42
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È sulla soglia di casa che si ferma tutto il male del mondo.

Ci indigniamo furiosamente per le cose brutte che vediamo scorrere sullo schermo del nostro computer oppure in tv.

Ci sentiamo parte del tutto se anche la rabbia è comune e condivisa e allora sfoggiamo bandiere di pace nei nostri profili social oppure sosteniamo proteste purché restino fuori dalle nostre abitazioni.

Sul nostro zerbino, colorato o con frasi di benvenuto, accogliamo lo straniero con sorrisi smargiassi e l’abbraccio virtuale diventa l’assoluzione per quel crimine che crediamo di non aver commesso semplicemente perché lontano.

È lì, su quella piccola piattaforma rettangolare, che si consuma l’amara lotta del mio e del tuo, il concetto di nostro ha abdicato già da tempo dal ricco Occidente. Ed è su quel minuscolo spazio che nasce la nostra indifferenza.

Tutto ciò che accade oltre lo zerbino di casa è troppo ingombrante e allora congeliamo la carità per ritirarci nei nostri appartamenti, certi, più che certi, che lì il male non potrà raggiungerci.

Protetti da solide pareti si masturba la nostra morale mentre sull’uscio di casa la piattaforma presidia il fortino e protegge funambolicamente le nostre vite.
Nel saturo e opulento Occidente dilaga quella che io chiamo la filosofia dello zerbino.

L’indifferenza si manifesta nei confronti di popoli che lasciano la terra natia per cercare disperatamente un rifugio dalla guerra, dall’insensata follia o dall’assoluta povertà che divora i loro paesi.

Vedere questa transumanza senza età riverbera per pochi istanti la nostra pietas mentre sale la collera e le lacrime scivolano sui bulimici visi.
Ma poi… poi valichiamo il nostro zerbino e lasciamo fuori tutto il resto. Tutto.

La disperazione degli altri non è cosa che ci riguarda, noi abitiamo luoghi sicuri, noi non lo sentiamo l’odore acre della guerra e della morte, noi il mare lo attraversiamo sapendo che oltre il dorato orizzonte un altro zerbino ci attende, noi nel mare ci tuffiamo felici con il solo desiderio di cambiare colore alla nostra pelle.

E mentre riempiamo la vita di cose superflue l’umanità a poco a poco si svuota.
Io osservo sconcertata questi fantocci che si sognano eterni, sicuri di appartenere a una razza eletta e speciale.

Io non piango di fronte ai volti della disperazione, io m’interrogo e non mi sento assolta dalla generosità di queste parole.

Le migliaia di braccia che premono sui nostri confini dovrebbero mettere in discussione l’intero sistema democratico dei paesi civili. Invece ci rintaniamo nelle fastose scatole di cemento perché anche domani sarà un giorno divino.

La nostra spavalderia è disgustosa come disgustoso è il nostro silenzio.
Sul mio zerbino ci sono tre civette, sinceramente non so a cosa servono e oggi non so di chi aver paura, se di me prigioniera delle incertezze o di voi lì fuori sereni nelle mille certezze.

Queste parole non cercano la mia assoluzione e non sono il viatico per la liberazione di un senso di colpa crescente. Il mio ombelico è ancora troppo profondo e, mio malgrado, continuo ancora a guardarci dentro. 

Mea culpa.

Ho scritto questo post dopo aver visto le foto di Danilo Balducci sull'immane tragedia dei migranti a Idomeni tra la Grecia e la Macedonia

 

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