Non odo altre voci umane, nemmeno quelle dei bambini che pure vacanzano qui con le loro lingue straniere. Non ne conosco l’idioma e la mia ignoranza in fatto di lingue mi impedisce di riconoscerne la provenienza.
In cinque giorni ho riletto il libro che mi ero portata, “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez (un folle amore di gioventù), un romanzo che su quest’isola sembra aver trovato il suo luogo d’elezione.
Alicudi come Macondo, in perfetto isolamento dal mondo intero. Alicudi è una terra accidentata, arcaica e selvaggia che ti guarda dentro. La fatica che fai per scendere o risalire è ripagata, ogni volta, dagli abbacinanti paesaggi che coinvolgono tutti i sensi in un vorace e insaziabile inno alla vita. Alicudi è pigra, è l’elogio alla lentezza, è il vuoto che hai dentro e che nessuno ti chiede di riempire.
Qui non temi la solitudine, anzi la padroneggi se sei pronto ad addomesticare i tuoi pensieri. I problemi della vita qui non svaniscono di colpo, spesso riaffiorano come mostri affamati, però puoi imparare a esaminarli con un nuovo sguardo. E il silenzio e l’isolamento aiutano a eliminare il superfluo rumore che confonde e ottunde la vista. Ci ostiniamo a vivere in affollate e caotiche città solo per prendere parte a una giostra infernale senza sosta.
In questi giorni ho volutamente chiuso ogni contatto con i social network, non ho postato foto, né commentato albe o tramonti.
Li ho semplicemente vissuti.
Alle dieci del mattino mi sono riaddormentata ma di un sonno pigro e pieno di malinconia. Eppure non rimpiango il resto della vita che, oltre quest’acqua, è lì ad aspettare ansioso il mio ritorno.
Scale, sole, silenzio. Sono le tre parole che farei incidere sulla porta del mio rifugio, se mai ne avessi uno su quest’isola. Confusamente sono tranquilla. Mi stupisco della mia capacità di adattamento. Forse è questo che cercavo, assoluta tranquillità per un tempo sospeso.
Oggi nessuna barca ha il coraggio di sfidare lo specchio di un mare vergine e immobile. Il cielo ha sposato l’orizzonte e sembra non esserci più terra dopo l’ultima roccia che abbraccia il mare.
E io, riprendo le mie letture, mentre i calabroni continuano a irrompere come unico segno di vita oltre me, oltre noi.
“Ambedue scoprirono che lì era sempre marzo e sempre lunedì, e allora capirono che José Arcadio Buendia non era pazzo come raccontava la famiglia, ma che era invece l’unico provvisto di sufficiente saggezza da intravedere la verità che anche il tempo subiva inciampi e incidenti, e poteva pertanto scheggiarsi e lasciare in una stanza una frazione eternizzata”
“Cent'anni di solitudine” di Gabriel García Márquez
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